Le parole della salute mentale… Conversando con Eugenio Borgna

Scritto da admin

Il 31 Ottobre 2014

Post production di Anita Eusebi
 “Di persona che non possiede, o non possiede interamente, l’uso della ragione. O anche di persona eccessivamente impulsiva o violenta”. Questa la definizione di matto nel vocabolario Treccani. Poi c’è folle che sta per “privo di senno, malato nelle funzioni mentali e abnorme per quanto riguarda gli atteggiamenti e i comportamenti che ne derivano”. O ancora pazzo, e lì la definizione è sintetica e senza ambiguità d’interpretazione: “malato di mente, sinonimo di matto”. Abbondano poi le estensioni di significato, gli usi figurati e proverbiali dei termini, e anche i riferimenti letterari e poetici con citazioni da Boccaccio, Dante, Manzoni, Verga. Persino un verso di Alda Merini. La stessa Alda Merini che probabilmente penserebbe bene di dar fuoco al vocabolario se solo leggesse definizioni di questo tipo. Morale della favola, non una parola, dico una soltanto, all’ esperienza di dolore e di sofferenza di chi ancora oggi viene etichettato, più o meno simpaticamente, con questi termini. Ma dunque chi è il matto o il màt, per dirla alla modenese?
«Tanto per cominciare io non uso mai queste parole», precisa subito Eugenio Borgna, psichiatra tra i più autorevoli e stimati, e ospite della giornata inaugurale di Màt – Settimana della Salute Mentale lo scorso 18 ottobre a Modena. «Io non parlo mai di matti, non parlo mai di pazzia – prosegue Borgna – perché ritengo che tutte le parole debbano rispettare fino in fondo con il loro significato quella che chiamiamo dignità. Chi soffre ha una dignità altissima. Chi soffre ha anche delle antenne rabdomantiche che gli consentono istantaneamente di capire se da parte dell’interlocutore ci sono attenzione, affetto, e un reale ascolto. È fondamentale quindi il rispetto che tutti dobbiamo avere delle parole, delle emozioni, degli sguardi, dei gesti, dei saluti. Il modo in cui si stringe per esempio la mano di una persona che sta male può palesare la sensibilità di chi fa questo gesto, come pure la sua indifferenza. Chi sta male questo lo capisce bene».

Come evitare allora nell’ambito della salute mentale parole stonate e inopportune che rischiano di ferire e far male, o nel migliore dei casi di fare comunque cattiva comunicazione? Oggi ha ormai un qualche senso parlare di persone con esperienza, d’altro canto va molto di moda l’appellativo utente. «No, la parola utente proprio non la userei – commenta Borgna – anche quello è stigma, mi fa pensare all’utente del gas, all’utente della luce. Insomma, a cose che con l’animo e con la sofferenza non hanno proprio nulla a che fare. Le parole hanno bisogno di esprimere fino in fondo la dignità, la libertà, la spontaneità della sofferenza. Come diceva il filosofo Wittgenstein, le parole che scegliamo cambiano il mondo nel quale noi stessi viviamo e cambiano il mondo di coloro che incontriamo. È allora di un’importanza estrema saper scegliere parole che aprano alla comunicazione, parole che non facciano del male, parole che siano portatrici di rispetto, di delicatezza, di sensibilità. Parole che possano aprire alla speranza il cuore di chi vive uno stato di disagio e di dolore». E màt? «Non conosco il dialetto modenese, ma mi hanno spiegato che màt con questo accento implica in qualche modo una trasfigurazione scherzosa e ironica della condizione di sofferenza psichica. Per cui no a parole come matto. E no a parole come pazzia, che è assolutamente da cancellare. Via libera invece per màt, che mi sembra una parola così carica di solidarietà e di umanità».
L’importanza del linguaggio è dunque assoluta. Questo il senso delle parole di Borgna, che in La solitudine dell’anima scrive “Le parole della speranza e le parole del silenzio sono le premesse necessarie alla comprensione e alla decifrazione del dolore e dell’inquietudine, della tristezza e della gioia, in noi e fuori di noi. […] Ci sono parole che danno ali alla speranza a alle attese”. Viceversa, ci sono parole “che fanno dell’altro un oggetto, e che fanno di noi degli estranei”. Parole dunque che è meglio tacere. Di quelle parole che racchiudono in sé la grigia connotazione del pregiudizio, comprese le aggravanti insensate, ma riscontrabili senza troppa difficoltà persino in un vocabolario di italiano, dell’esclusione sociale, della pericolosità e dell’inguaribilità. Parole “fredde, opache, crudeli e pietrificate” – come scritto nel suo ultimo libro La fragilità che è in noi – di contro a parole “leggere e profonde, fulgide e discrete, delicate e aperte alla speranza, fragili e friabili, permeabili all’ incontro e al dialogo”.
 

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