Salute mentale: «Io, bipolare, pensavo di non meritare un lavoro che mi piacesse». -Vanity Fair-

Scritto da admin

Il 10 Ottobre 2021

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Al lavoro la salute mentale è talmente stigmatizzata, che ci sono aziende che preferiscono le sanzioni all’assunzione di persone con psicopatologie

Il rapporto che lega il lavoro e la salute mentale è complesso e se ne parla in generale troppo poco. Oggi che ricorre la Giornata Mondiale della Salute Mentale, vorremo invece ribadire quanto un’occupazione quotidiana sia parte integrante del percorso di cura che una persona che soffre di una psicopatologia deve affrontare.

Alessia, modenese di 52 anni, lo sa bene: «A 35 anni mi è stato diagnosticato un disturbo bipolare: a lungo ho pensato di non meritarmi un lavoro che mi piacesse, da cui ricavare soddisfazioni. Così per oltre un decennio ho lavorato in un’agenzia di scommesse, con l’unico obiettivo di arrivare a fine turno per lo stipendio» ci racconta.

Poi sopraggiunge la chiusura dell’agenzia e con essa un momento di disorientamento, da cui Alessia esce grazie a un’opportunità nata con un corso da Esperto in Supporto tra Pari (ESP) organizzato dal Centro di Salute Mentale di Modena. Una figura professionale, questa, che può essere incarnata da «chi ha attraversato il mondo della malattia mentale e avviato un percorso di consapevolezza tale da poter mettere a disposizione la propria esperienza dei vari servizi territoriali e delle realtà associative. È stato un punto di svolta: ho capito che il mio dolore, ciò che avevo vissuto, poteva essere utile ad altre persone e che fornire supporto poteva essere il mio lavoro».PUBBLICITÀ

Così, Alessia inizia un nuovo percorso professionale che ora la vede presiedere l’associazione Idee in Circolo: «Mi occupo principalmente dell’accettazione degli utenti, ma non solo. È innegabile che svolgere un lavoro utile, che mi appassiona e che mi dà la possibilità di ascoltare e raccontarmi fa parte integrante del mio percorso di cura quotidiano».

Se non si è vissuto sulla propria pelle lo stigma, l’emarginazione, che deriva dalla sofferenza psicologica è difficile capire quanto dobbiamo lavorare su questo fronte. Indispensabile parlare serenamente di questi temi, accogliere chi soffre per una psicopatologia, mettere in campo come società gli strumenti necessari perché non si sentano esclusi.PUBBLICITÀ

Fra questi, il lavoro è cruciale. Ne è convinto anche lo psichiatra Fabrizio Starace, componente del Consiglio Superiore di Sanità e direttore del festival «Màt, Settimana della Salute Mentale», la più grande manifestazione corale in Italia dedicata a questi temi, in programma a Modena dal 16 al 23 ottobre con un centinaio fra incontri, approfondimenti, spettacoli ed eventi. Al centro di questa undicesima edizione, gli effetti psicologici e sociali legati alla pandemia.

Dottor Starace, in generale quanto conta un lavoro per una persona che ha una psicopatologia?
«Il lavoro è per ciascuno di noi strumento per procurarsi da vivere dignitosamente, per contribuire allo sviluppo economico e sociale della comunità, ma anche elemento identitario, espressione della propria creatività, del personale investimento nel mondo. Questo è il motivo per cui è un diritto fondamentale dell’uomo, costituzionalmente garantito. Tutto ciò è ancor più vero per chi ha problemi di salute mentale, per i quali già soffre di quei meccanismi di stigma ed emarginazione ancora fortemente diffusi».

Che ruolo svolgono a questo proposito i Dipartimenti di Salute Mentale?
«I programmi di formazione e inserimento lavorativo, di grande importanza per garantire una vera inclusione sociale, sono inseriti tra gli interventi che i Dipartimenti di Salute Mentale devono garantire, sia a coloro che hanno disturbi psichiatrici gravi, sia alle persone – molto più numerose – che presentano i cosiddetti “disturbi psichiatrici comuni”, come ansia e depressione. In questo secondo caso è più spesso necessario sostenere le persone che attraversano periodi di sofferenza perché mantengano la propria attività lavorativa».

Nel nostro Paese, nel 2021, quanto è forte ancora lo stiga nei confronti delle malattie mentali nei luoghi di lavoro?
«Stigma e pregiudizio “avvelenano” la convivenza civile di una comunità, anche nei gruppi di lavoro o tra colleghi. Le possibili conseguenze negative, la marginalizzazione, il sotto-mansionamento, sono eventi purtroppo frequenti, e a loro volta aggravano condizioni di disagio preesistente. In molti casi, per evitare di esporsi a questo rischio, chi ha problemi di salute mentale tende a mascherarli, a sottostimarne la portata, a evitare le cure necessarie. Si manifesta in questi casi un fenomeno definito del “presenteismo”, ossia l’ostinata presenza sul posto di lavoro anche quando le condizioni sarebbero tali da indicare un periodo di assenza per cure appropriate».

Le norme che regolano il collocamento mirato e l’obbligo di riservare una quota delle assunzioni ai disabili stanno funzionando?
«La loro applicazione, purtroppo, è ancora lontana dall’essere soddisfacente, in particolare proprio per il persistere di stigma e pregiudizio verso i problemi di salute mentale. Vi sono aziende che preferiscono affrontare le sanzioni pur di non adempiere all’obbligo di assunzione. In questo è decisiva non solo la “mission” dell’azienda ma anche il rapporto tra la stessa e la rete dei servizi, decisiva per le azioni di formazione, supervisione, e se necessario di intervento nelle situazioni di crisi».

(Foto: unsplash.com).

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