Màt 2015: ripensare le pratiche in chiave di recovery

Scritto da admin

Il 20 Novembre 2015

di Anita Eusebi
“Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Se vogliamo sapere qualcosa di un uomo, chiediamo: “Qual è la sua storia, la sua storia vera, intima?” poiché ciascuno di noi è una biografia, una storia. […] Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi, possedere, se necessario ri-possedere, la storia del nostro vissuto. Dobbiamo ripetere noi stessi, nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi”. Così scrive Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, quando racconta la storia del signor Thompson. Analoghe riflessioni sono state il filo conduttore del convegno Recovery: una sfida possibile che si è tenuto lo scorso 19 ottobre nell’ambito di Màt 2015 a Modena.
Tra gli ospiti, Antonio Maone, psichiatra del Dipartimento di salute mentale Asl Roma/A, è intervenuto introducendo abilmente ai nuovi paradigmi della salute mentale. «L’esperienza prolungata della malattia mentale produce “un’erosione del senso di sé”. Ed è questo un concetto saturo di significati. È cioè come se la malattia avesse un doppio, come diceva lo stesso Franco Basaglia. Noi ne vediamo solo l’aspetto esteriore, ma il vero bisogno – da cui nasce la malattia – è dietro. Come se, nel caso di una riabilitazione motoria di un arto che ha subito una rottura, noi curassimo i muscoli, e dimenticassimo che il danno sta nelle ossa. Per non parlare dello stigma interno che gradualmente si sviluppa e con il quale noi professionisti facilmente colludiamo: pensiamo che per quella persona non c’è niente da fare, allora la persona se ne convince e noi con lei», ha affermato Maone. «Questo tipo di danno erode chiaramente il senso di sé dell’autoefficacia, che è la “conditio sine qua non” dell’autodeterminazione. E la motivazione noi la recuperiamo solo restituendo strumenti opportuni e reali, con i quali le persone possono fare quello che desiderano. Se non riusciamo prima di tutto a riattivare la motivazione, allora le tecniche, anche le più aggiornate e raffinate in campo riabilitativo, rischiano di perdere senso ed efficacia».
L’importanza dell’esperienza personale, del metterla in gioco, come aspetto centrale del percorso riabilitativo, è stata sottolineata a Màt 2015 anche da Roberto Mezzina, Direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste: «Il termine recovery non significa necessariamente guarigione clinica, bensì enfatizza il viaggio compiuto da ciascuno nel ri-costruirsi una vita al di là della malattia. È presa di coscienza di sé e dei propri problemi, ma soprattutto dei propri obiettivi di esistenza».
Ma come ripensare le pratiche della salute mentale in chiave di recovery? «Questo è il punto essenziale», ha affermato lo psichiatra Giuseppe Tibaldi, altro ospite del convegno, responsabile del Centro di salute mentale di Barriera di Milano e coordinatore scientifico del Centro studi e ricerche in psichiatria di Torino. «Soprattutto quando il principio che riceviamo nei nostri percorsi formativi universitari è un principio di inguaribilità. Scientificamente infondato, è tra i principali ostacoli nei percorsi positivi perché, nel momento in cui si comunica per esempio a una persona che dovrà prendere i farmaci per tutta la vita, si manda un messaggio di inguaribilità. Ed è un messaggio che non è legittimo. Dobbiamo assolutamente ripensare il nostro modo di usare gli psicofarmaci, per il principio generale che il farmaco, da solo, non è sufficiente. E riporto posizioni molto critiche rispetto ai farmaci non perché io non li prescriva nel mio lavoro quotidiano, li uso tutti i giorni, ma li uso nella consapevolezza dei loro limiti, della loro parzialità».


“La guarigione non implica che il danno prodotto dalla ferita esistenziale non sia mai esistito, ma significa che quel danno non controlla più la nostra esistenza”, recitava una delle slide proiettate da Tibaldi. «Credo che questo sia un elemento chiave dei percorsi positivi. In altre parole, so che rimangono residui di sofferenza, ma so che non controllano più l’esistenza. C’è una sorta di rovesciamento degli equilibri interni che possiamo tradurre con il termine di “empowerment”: il nucleo psicotico di sofferenza perde potere, come una dittatura che è destinata a cadere, a cedere alle forze interne di resistenza e di opposizione. Noi professionisti dobbiamo credere che tali forze di opposizione vadano sostenute e favorite perché riprendano il controllo della persona con disagio psichico. Continuando nella metafora, penso che un professionista non possa allearsi col dittatore, non possiamo dire a una persona “rassegnati, la psicosi ti resterà addosso per il resto della tua vita”, sarebbe come dire “tieniti la dittatura che siamo tranquilli tutti e due”. Penso che, anche quando le cose non sembrano andare bene, vada fatto ogni sforzo possibile per sostenere la coalizione interna che può rovesciare la dittatura», ha ribadito Tibaldi. «Ritengo dunque che sia nostro compito ascoltare le storie di coloro che hanno attraversato questa esperienza ed entrare in una zona di relazione. Non possiamo far altro che discutere con loro, incontrare il loro punto di vista, in una sfida quotidiana verso una psichiatria post-paternalistica. Noi non siamo i migliori interpreti e rappresentanti dei bisogni dei nostri pazienti, dobbiamo costruire un’alleanza con loro che non sia asimmetrica, come invece di solito accade nei servizi. È questo quello che ci chiedono i “sopravvissuti” più consapevoli. Per questo dobbiamo ripensare l’uso del farmaco, soprattutto alla luce del fatto che lo psicofarmaco uccide la curiosità, sia del paziente che del professionista. C’è un rischio fortissimo che si dorma entrambi, si perda cioè la curiosità di capire perché si è avuta l’esperienza psicotica. Come sono solite dire le associazioni di uditori di voci, “non chiedetemi niente sui miei sintomi, chiedetemi che cosa mi è successo nella vita”. Questa è la domanda essenziale. L’unica domanda legittima che un professionista può fare».
Perché, come scrive ancora Oliver Sacks, “l’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua dignità, il suo sé”. Per non sentirsi più visto come una persona malata, come un “diverso”, stigmatizzato dalla società e da se stesso.

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