di Radio LiberaMente
Grazie all’Associazione Culturale Psicantria e alla Fondazione Giorgio Gaber, presso il teatro Dadà di Castelfranco Emilia, tramite musica, racconti ed immagini, ha rivissuto “Far Finta Di Esser Sani”, prima disco, poi spettacolo e dopo ancora documentario trasmesso da Sky Arte lo scorso anno.  

La follia è il filo conduttore principale di “Far finta di essere sani”, il cui testo e il cui senso complessivo sono particolarmente legati all’interesse del cantautore milanese e di Luporini, amico e storico collaboratore del Signor G, per l’antipsichiatria. Gaber stesso ha raccontato di aver ideato il titolo di quest’altra importante tappa del teatro canzone dopo essersi interrogato, guardando dall’esterno la facciata di un istituto psichiatrico: infatti il cantautore si chiedeva se i cosiddetti matti, reclusi nei manicomi – i cui cancelli si sarebbero aperti nel 1978, grazie alla Legge 180 – fossero realmente così diversi da chi si considera sano. In linea con l’approccio fenomenologico-esistenziale di Ronald Laing, anche per Gaber non esiste un’esperienza mentale che si costituisca in maniera del tutto indipendente dal mondo sociale.
L’interesse di Gaber per i temi di fondo di “Far finta di essere sani” è dimostrato anche da due episodi, che risalgono proprio alla stagione teatrale in cui venne messo in scena quello spettacolo. Il primo riguarda l’incontro tra il cantautore e Franco Basaglia: il medico, dopo aver visto e apprezzato lo spettacolo a Trieste, invita Gaber a visitare l’istituto San Giovanni, che lui stesso dirigeva. Del resto, va ricordato che il brano intitolato poi in via definitiva Il Guarito era inserito, nella scaletta delle prime date di Far finta di essere sani, con II titolo Lettera a Basaglia. Il secondo riguarda la scelta del cantautore di accettare l’invito del direttore dell’ospedale psichiatrico a Voghera, Gianfranco Goldwum, di rappresentare lo spettacolo nel cortile della struttura, di fronte a un pubblico composto in gran parte dai pazienti, dai familiari e dagli operatori. Chi lo ricorda bene è anche Dino Sforzini, che durante un’intervista sulla chiusura del manicomio di Voghera dichiarerà:
Quella fu una serata mitica. Per assistere al concerto, la gente “normale” è entrata per la prima volta in manicomio, rendendosi conto che non c’erano le belve, come molti credevano, ma persone con le loro sofferenze”.
E Gaber nei suoi testi è arrivato a descriverla con estrema chiarezza la sofferenza, prova ne è “L’elastico”, che racconta la storia di un uomo steso sul lettino del suo analista che prova la sensazione di avere nel corpo un filo teso che tiene insieme le parti (mente e corpo) finché “non tiene più l’elastico, di colpo fuori e dentro, lo schianto”. Chissà cosa direbbe il Signor G se sapesse che in California diversi miliardari stanno portando avanti ricerche per poter digitalizzare la mente, crearne un back up scollegato dal corpo. Lui che era un uomo di una corporalità prorompente, solo come certi cantautori francesi, un uomo che, da poliomielitico, il suo corpo lo aveva dovuto lavorare per divenire il performer ed il chitarrista che conoscete. E nonostante questo, ci racconta il dottor Vistoli:  Era un portiere da asfalto, uno che la prima volta che ha giocato su un campetto sull’erba si è sentito a disagio”. Grazie Giorgio per la tua urgenza comunicativa, per il tuo bisogno di non trascurare i problemi, partendo dalle piccole cose fino ad arrivare  a quelle grandi della vita, sempre con quel desiderio di condividere. Siamo sicuri che a Màt ti saresti divertito!