di Anita Eusebi
“La contenzione è da considerarsi un residuo della cultura manicomiale. Ciononostante, la pratica di legare i pazienti e le pazienti contro la loro volontà risulta essere tuttora applicata, in forma non eccezionale, senza che vi sia un’attenzione adeguata alla gravità del problema, né da parte dell’opinione pubblica né delle istituzioni”. Così si legge nel documento La contenzione: problemi bioetici redatto dal gruppo di lavoro del Comitato Nazionale per la Bioetica nell’aprile del 2015.
Un’ampia riflessione critica sulla realtà odierna dei trattamenti coercitivi in psichiatria sarà il tema centrale della giornata inaugurale di Màt 2016, che si aprirà il 22 ottobre presso l’Aula Magna del Policlinico di Modena con il Convegno Per una psichiatria senza coercizione. Tra gli ospiti, interverranno in particolare Martin Zinkler, Primario della Clinica di Psichiatria, Psicoterapia e Psicosomatica di Heidenheim (Germania) e Direttore, con Michael Lindemann, della rivista Recht und Psychiatrie (Diritto e Psichiatria), e Stefano Canestrari, Professore ordinario di Diritto penale dell’Università di Bologna, nonché membro del Comitato Nazionale per la Bioetica e curatore, insieme alla Dott.ssa Grazia Zuffa, del documento citato.
«La tensione verso l’azzeramento dell’uso di interventi coercitivi in psichiatria (per esempio: trattamenti sanitari obbligatori, contenzione meccanica, restrizioni delle libertà personali, somministrazione forzata di farmaci) è un indicatore del grado di civiltà di una società e deve unire – anziché dividere, come è stato a volte in passato – utenti, familiari, professionisti della salute mentale, cittadini e amministratori», ha dichiarato Gian Maria Galeazzi, Professore associato di Psichiatria presso il Dipartimento di Medicina Diagnostica, Clinica e di Sanità Pubblica dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e organizzatore dell’evento. «L’incontro affronta il tema con due relazioni, di un clinico e di un giurista. Il perseguimento dell’obiettivo di una psichiatria senza coercizione si fonda infatti su principi etici e di diritto, sul rispetto dei valori e dell’integrità della persona, su tradizioni cliniche ed esperienze che valorizzano l’ascolto, la relazione, l’attivazione delle risorse personali, familiari e comunitarie invece di emarginare la diversità e medicalizzare la sofferenza psichica».
[nella foto: Martin Zinkler]
Oltre a numerose pubblicazioni su diritti umani, prevenzione della coercizione in psichiatria, qualità delle cure in salute mentale, terapia dialettico-comportamentale, Zinkler ha recentemente curato in particolare il volume, pubblicato nel 2016, Prävention von Zwangsmaßnahmen – Menschenrechte und therapeutische Kulturen in der Psychiatrie (Prevenzione dei trattamenti coercitivi – Diritti umani e culture terapeutiche in psichiatria): tra i risultati della sua attività di ricerca, il fatto che il ricorso a trattamenti coercitivi varia in maniera estremamente significativa da paese a paese, e anche da zona a zona all’interno dello stesso paese. «Ciò significa che è estremamente improbabile che siano le caratteristiche intrinseche dei pazienti a fare la differenza quanto piuttosto la cultura terapeutica, l’abitudine, il capitale sociale, le risorse dedicate alla salute mentale fuori dall’ospedale», ha sottolineato Galeazzi. E per ottenere miglioramenti in questa direzione, dunque alcune parole d’ordine: diritti (con particolare riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, poiché alcuni trattamenti coercitivi inumani e degradanti possono configurarsi come tortura vera e propria), risorse (umane ed economiche) e cultura (dei servizi e della società intorno).
[nella foto: Stefano Canestrari]
Ricordando allora che l’uso della forza e la contenzione rappresentano in sé una violazione dei diritti fondamentali della persona, analogamente il Comitato Nazionale per la Bioetica torna a ribadire la necessità del superamento della contenzione, nell’ambito della promozione di una cultura della cura rispettosa dei diritti e della dignità delle persone: «È vero che la possibilità di usare la contenzione meccanica non è mai stata esclusa in via assoluta – scrive Canestrari – ma ciò dovrebbe essere interpretato come una cautela, rispetto a eventuali situazioni estreme di pericolo che i sanitari non siano in grado di fronteggiare in altro modo. Invece, questa “uscita di emergenza” assolutamente eccezionale, che permette ai sanitari di derogare dalla norma di non legare i pazienti contro la loro volontà, si è troppo spesso tramutata in una prassi a carattere routinario. La tolleranza, concessa in casi estremi per un intervento così lesivo della libertà e dignità della persona, è stata erroneamente interpretata come una licenza al suo ordinario utilizzo». E spesso con conseguenze a dir poco drammatiche, basti pensare a titolo di esempio alle dolorose vicende di Andrea Soldi a Torino, di Mauro Guerra a Padova, di Francesco Mastrogiovanni a Vallo della Lucania, di Giuseppe Casu a Cagliari.
Vicende in cui il corpo malato “isolato, segregato, reso inoffensivo” dall’istituzione manicomiale di cui scrive Franco Basaglia in L’utopia della realtà, torna prepotentemente attuale e riecheggiano amare le parole di Antonin Artaud nella nota lettera ai direttori dei manicomi, di quasi un secolo fa: “Possiate ricordarvene domani mattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di conversare con questi uomini, nei confronti dei quali, dovete riconoscerlo, non avete altra superiorità che la forza”.