di Laura Solieri

Abitare è un vivere nel mutamento, un cammino perenne in un luogo dove si costruiscono relazioni, si conoscono persone, si è conosciuti e riconosciuti.
«Le persone con disturbi mentali vivono nella comunità e hanno bisogno dei servizi come tutti gli altri cittadini – esordisce Pietro Pellegrini, vicepresidente della Consulta Regionale per la Salute Mentale che il 23 ottobre interverrà a Sassuolo (Auditorium Pierangelo Bertoli, via Pia 108) al convegno “Premesse, creatività e criticità nei programmi di abitare supportato” (ore 14.30- 19.30) – E’ necessario porre come premessa questo concetto molto normalizzante, per cui tutti, in quanto cittadini, abbiamo gli stessi diritti e doveri. Il vivere in una casa propria o in affitto, con i propri famigliari o con chi si è scelto di vivere, richiede ovviamente determinati requisiti, in primis avere un reddito sufficiente a sostenere le spese delle autonomie, ma se le persone hanno difficoltà a lavorare in ragione del loro disturbo siamo già difronte a un primo, grande problema. Le situazioni poi sono molto diverse tra loro, ad esempio abbiamo anche casi in cui è necessario supportare le abilità a vivere in una situazione autonoma…».
Per favorire il rapporto tra le diverse forme di abitare supportato, della cosiddetta residenzialità leggera, occorre che il sistema possa essere implementato attraverso una riconversione di una residenzialità psichiatrica più tradizionale, incentrata su strutture che tendono a seguire in maniera molto accurata un numero limitato di persone ma non a costruire adeguatamente, insieme ai centri di salute mentale, delle prospettive.
«La Consulta Regionale lavora su varie ipotesi per far sì che queste strutture diventino servizi per la comunità e promuovano non solo l’abitare supportato ma anche l’impresa sociale, l’inclusione sociale per pensare alle persone nella comunità, inserite in un ambito che loro stesse hanno scelto – spiega Pellegrini, sottolineando che in questo la regione Emilia-Romagna si distingue come territorio virtuoso, in grado di differenziare l’offerta anche con questi strumenti innovativi – Questi percorsi non sostituiscono in alcun modo i diritti ma si tratta di interventi di carattere abilitativo, capacitante, per mettere le persone nelle condizioni di avere una loro contrattualità mentre i diritti alla casa, al lavoro, al reddito sono diritti fondamentali ed esigibili dalle persone».
Interventi, quindi, che non sostituiscono un sistema di servizi ma che aggiungono e modificano una concezione degli interventi psicosociali segnando una via attraverso la quale rendere effettivi i diritti di cittadinanza.
«Ci siamo resi conto – dice Pellegrini – che questa possibilità di intervenire prendendo come riferimento il punto di vista della persona è una risorsa da mettere in campo per coniugare meglio i programmi di cura con il percorso di vita: il Budget di Salute ha questa funzione e l’abitare supportato fa sì che si possano attivare anche forme di auto mutuo aiuto tra le persone, di ospitalità, di attivazione di reti con altri che magari hanno problemi diversi».
E a proposito di abitare, c’è anche il grande tema dei percorsi residenziali di cui si parlerà il 24 ottobre a Modena al convegno “Percorsi riabilitativi residenziali tra rischio di cronicità e recovery” (8-30-13.30 a La Tenda, viale Molza angolo viale Monte Kosica) a cui interverrà tra gli altri Stefania Borghetti, presidente della Società Italiana di Riabilitazione Psicosociale sezione Lombardia.
Nelle strutture psichiatriche residenziali italiane esiste un problema di qualità del lavoro riabilitativo, tanto che molti parlano di rischio di una deriva neoistituzionalizzante ovvero di un ritorno ad alcune pratiche istituzionalizzanti, vale a dire manicomiali, all’interno della comunità.

«Purtroppo questa osservazione è supportata da alcuni dati, ad esempio dal fatto che spesso le persone stanno nelle comunità psichiatriche per tempi indefiniti, a volte superiori a quelli stabiliti dalle varie normative regionali e c’è quindi il problema del tempo di permanenza nelle comunità che supera gli standard stabiliti» spiega Borghetti.
Il fattore tempo è uno degli indicatori principali che indica questo rischio di deriva neoistituzionalizzante a cui si aggiunge il fatto che la maggior parte dei soldi dedicati alla Psichiatria non necessariamente vengono riassorbiti dalle strutture residenziali, cioè succede che i servizi territoriali hanno la minor parte delle risorse mentre nella residenzialità stanno la minor parte dei pazienti psichiatrici che quindi assorbono la maggior parte delle risorse economiche.
«Ci sono altri fattori importanti, come l’incuria di alcuni luoghi, la mancanza di attenzione alle dimensioni soggettive, intime, private dei pazienti e la mancanza di obiettivi condivisi con i pazienti – dice Borghetti – Fatta questa fotografia della situazione, dobbiamo coraggiosamente chiederci: quali sono le specificità delle comunità psichiatriche? Perché ci servono? Questo per capire insieme come strutturarle e quali sono gli antidoti alle derive neoistituzionalizzanti per proteggere le comunità da un deriva manicomiale».
Borghetti sottolinea parallelamente che sono molte a livello nazionale le comunità che lavorano bene, a stretto contatto con i servizi territoriali, alcune delle quali accettano di fare percorsi di autovalutazione molto interessanti insieme ad altre comunità.
«E’ molto complesso fare una mappatura e valutare la qualità del lavoro di tutte le comunità – conclude Borghetti – Si tratta di un dato poco misurabile ma assolutamente evidente agli operatori.
Ci sono due fattori molto importanti nelle comunità su cui lavorare: il concepire la comunità come sistema aperto, in continuo scambio con il mondo esterno per una comunità viva, vitale ed evolutiva; la capacità delle comunità di considerarsi dei sistemi insaturi, incompleti. Le comunità devono concepirsi e organizzarsi pensando di avere sempre bisogno di qualcosa che sta fuori.
Questi sono gli antidoti principali: l’incompletezza e il concepirsi come sistemi aperti».